Se l’autostrada Mestre-Padova è diventata troppo cara bisogna per forza escogitare qualcosa, vagliare le alternative, esaminare le opzioni. “1 euro può bastare”, pensano i due amici veneti che si trovano a dover decidere quale strada prendere per andare al lavoro. E quale altra può essere se non quella “a traverso campi” in versione contemporanea, cioè attraverso le strade urbane della Riviera del Brenta? Idea geniale, non c’è che dire, ma… Inseguiti da fantomatici controllori che vorrebbero riportarli sulla retta (auto)strada, riusciranno i nostri eroi a giungere in orario? Dopo “Un Casello di Ordinaria Follia” arrivano quelli Duri a Pagare, i Pay Hard Boys e quando arrivano loro… è tutta un’altra strada! DOLiWOOD Films feat. OPZIONE ZERO
Archivi giornalieri: 16 febbraio 2014
“I due marò e le missioni umanitarie che diventano criminali”
Il sentimento nazionale con la vicenda due marò è a livelli di bassezza mai raggiunti quanto a menzogne, ormai di stato. Per trasformarsi un una sorta di lutto collettivo. Ma non per Valentine Jalastine e Ajesh Pinku, i due pescatori indiani uccisi, perché si sa la vita di due pescatori, a qualsiasi latitudine appartengano, vale meno di zero. Perché, che i due lavoratori del mare indiani siano stati uccisi è incontrovertibile. Come il fatto che, dalle prime testimonianze rilasciate alle autorità di polizia del Kerala dagli stessi marò ora trattenuti in India, la pattuglia armata fino ai denti di scorta al mercantile Enrica Lexie, fece fuoco per avere visto movimenti di armi sul naviglio di pescatori. O quelle morti vanno attribuite ad un delitto passionale hindu?
Certo, anche noi siamo contro la lunga detenzione in attesa di giudizio, di chiunque e ovunque. Ma l’Italia è stata partecipe di tutti i ritardi della giustizia indiana. A volte ha chiesto con una parte del governo i rinvii mentre con l’altra protestava, com’è accaduto in questi giorni con le lamentele del ministro Mauro denunciate nella loro ambiguità perfino da Corriere della Sera. Senza dimenticare, a proposito di ritardi, la bella azione dell’ex ministro degli esteri Terzi che, contro la decisione presa congiuntamente con le autorità indiane, decise di non rimandare i due marò in licenza per votare alle politiche del 2013. Perché siamo restii ad ammettere quel che è accaduto? Perché emergerebbero le nostre responsabilità politiche, come ha provato a far intendere una settimana fa la stessa Bonino, quando ha messo in rilievo i limiti della legge voluta da Ignazio La Russa, primo firmatario ma votata da tutti, che autorizzò militari italiani ad essere usati come scorta privata sui mercantili commerciali. Ma ora il salto della quaglia è doppio. Perché ieri mattina in Parlamento, il ministro degli esteri Bonino ha schierato in difesa delle ragioni dell’Italia la Ue e addirittura la Nato, ricordando le convenzioni internazionali decise contro la pirateria, in parte volute anche dall’Onu, pur sorprendendosi dell’atteggiamento dell’Onu che, con Ban Ki-moon, insiste per una soluzione solo bilaterale, tra Italia e India. Il fatto è che la legge voluta da La Russa arrivò prima della Risoluzione Onu ma dopo la missione europea Atlanta, alla quale partecipa l’Italia, in vigore dal 2008 e autorizzata solo per le coste della Somalia. Il risultato fu che le scorte dell’esercito italiano sulle navi italiane private vennero effettuate senza il consenso degli stati coinvolti dalle operazioni. Come fa adesso l’Onu — che deve pure tenere conto che l’India è il primo paese fornitore di caschi blu per le missioni internazionali — a riconoscere l’azione armata italiana che ha “fucilato” i due pescatori in una zona, quella indiana del Kerala, dove la pirateria non c’è mai stata?…
…Né risulta che le nefandezze compiute dai nostri soldati “brava gente”, in Iraq, Afghanistan, Mogadiscio e in Somalia siano mai state punite. E’ ora di comprendere che sempre le iniziative militari anti-terrorismo sedicenti “umanitarie” sono diventate criminali, con l’uccisione spesso di tanti civili innocenti…
Cinquemila voci per Aldro: «Via la divisa!»
Il corteo di Ferrara per chiedere la destituzione di quattro agenti che uccisero un diciottenne
«Questo è Aldro che canta», dicono Boldro e Parme saltando giù dal camion. L’altoparlante spara la voce di Morrissey, cantante degli Smiths. Quello che si sente per via Bologna è la musica che piaceva a Federico. Oppure sono le voci di madri, sorelle, padri, fratelli, figli di vittime di malapolizia. Nomi che abbiamo imparato a conoscere grazie alla storia di Aldro, di chi s’è battuto per giustizia e verità. E che continua a battersi perché i quattro colpevoli dell’omicidio di Federico, avvenuto otto anni fa, quasi nove, non indossino più la divisa che hanno disonorato con un contegno da «schegge impazzite» come li ha definiti una delle tre sentenze che li hanno condannati per eccesso colposo nell’omicidio di un diciottenne.
Mentre scriviamo sono almeno cinquemila le persone che hanno risposto all’appello del comitato Aldrovandi e sono venute a sfilare a Ferrara partendo dall’ippodromo dove il 25 settembre del 2005 si svolse quel violentissimo controllo di polizia che costò la vita a un diciottenne e la reputazione alla polizia di stato.
Altre voci sono cori. Da stadio. Il mondo ultras, infatti, è stato tra i primi a riconoscersi in Federico – «uno di noi!» – e a schierarsi a fianco di Lino, Patrizia, Stefano e ai pochi ferraresi che decisero di rompere la “zona del silenzio”, l’omertà di una città impaurita e ossessionata dal securitarismo. Cori e fumi degli ultrà si spandono per la piazza buona di Ferrara, lunga coda di un corteo composto da una molteplicità di soggetti sociali che popolano quello che Manlio Milani ha definito il “Paese dei comitati”, il suo comitato è quello dei parenti delle vittime della strage di Brescia.
Ringrazia tutti, il papà di Federico, e ricorda A sfilare è la geografia dei comitati e la storia di questa inchiesta che partì grazie all’ostinazione di una famiglia, degli anici di Aldrovandi, di pochi attivisti di Rifondazione e dell’Arci, di pochi giornalisti (Liberazione, il manifesto e Chi l’ha visto) e alcunilegali, Fabio Anselmo, Alessandra Pisa e Riccardo Venturi. Naturalmente non manca nessuno di loro tra quella folla che invade la suggestiva Via Ercole I D’Este gridando «Via la divisa».
Tanta gente è arrivata da Bologna, da Roma (dove nacquero i primi comitati Aldrovandi), dalla galassia delle curve e da quella dei centri sociali, da quella dei collettivi studenteschi e da altri mondi della sinitra. C’è il deputato grillino, Bernini, che aspetta che gli facciano leggere gli atti delle commissioni di disciplina che hanno stabilito che non c’è nulla di strano a tornare in divisa dopo aver ucciso un diciottenne in quel modo, che di “colposo” c’è solo il titolo del reato. Basterebbe leggere le sentenze.
C’è anche lo schizofrenico mondo del Pd, fatto da persone che credono fin dall’inizio in questa battaglia (per tutti l’ex sindaco Sateriale e l’attuale vicesindaco Maisto) e quel ferrarese Dario Franceschini che non avrebbe voluto che fosse ufficiale l’adesione del Pd al corteo e che oggi manca. Pare che aspiri al Viminale con il nuovo che avanza di Renzi e non sta bene mettere la faccia tra questa gente.
Al margine del corteo e più lontano, verso il Grattacielo, c’è un’Italia diversa da questa. Al margine c’è chi è abituato a guardare, sotto il Grattacielo c’è una fiaccolata leghista. Entrambi sono mondi che non trovano nulla di strano che i quattro indossino ancora la divisa. Sotto al Castello, proprio dove ci fu l’eccidio della lunga notte del 43, Lino sale sul camion e impugna il microfono.
Ringrazia tutti, Lino, e non dimentica nulla: non scorda di chiedere che un codice alfanumerico decori le divise di chi opera travisato in ordine pubblico, non scorda la pena mite per i quattro e un capo di imputazione stretto (come spiegano le sentenze), i depistaggi e le omissioni, lo stalking a chi criticava la questura nei commenti su internet e anche ai giornalisti che seguivano il caso, le scuse di Manganelli e le promesse della Cancellieri, fino alla risposta di Alfano all’interrogazione di Bernini, quella in cui si dice che non c’è nulla di strano se i quattro restano a carico dei contribuenti con una divisa che meriterebbe migliori attenzioni. «Quanto danno hanno fatto con questa decisione?», si chiede Lino e zittisce tutti coloro che pensano che in fondo la sua famiglia è stata risarcita e che dovrebbe piantarla.
«La vita e il sangue di un figlio non hanno prezzo!», ricorda loro questo padre che per avere quel briciolo di giustizia deve rivivere migliaia di volte il suo strazio e quello di chi ama. Non era questa la risposta che si aspettava dallo Stato e torna a chiedere «con più forza e determinazione, senza odio e senza astio, nemici anche questi del rispetto e della dignità umana» che quei quattro vengano licenziati. Lo spirito di corpo di nuovo contro il corpo di suo figlio.
Lino è anche orgoglioso: dei compagni di viaggio – Acad e i parenti di Uva, Cucchi, Ferrulli, Casalnuovo, Budroni, Scaroni, Gugliotta, Brunetti, Biagetti, Franceschi, Daniele ecc… – «dei giornalisti di questa storia che non hanno avuto paura a raccontare», di scrittori e disegnatori e attori e musicisti, a partire da Stefano Tassinari che manca come l’aria a molti di coloro che stanno manifestando e che leggeranno questo articolo. «Cerchiamo di crescere insieme e uniti – dice a istituzioni e cittadini – e di pensare al futuro dei nostri figli… Bimbi di noi tutti che un giorno cresceranno e vorranno tornare sempre a casa da chi li aspetta».
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