Lettere dal carcere di Claudio attivista No Tav

 

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Carcere delle Vallette Torino 20 gennaio 2014

Ciao a tutti,

dal 9 dicembre sono rinchiuso qua al blocco D delle Vallette insieme a Niccolò e Mattia mentre Chiara sta al blocco F, privati dei nostri affetti come delle lotte che portavamo avanti fuori, delle nostre montagne come dei nostri quartieri.

I giudici in ossequio alla volontà della procura ci hanno appioppato l’appellativo di “terroristi”, così il DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) ci ha classificato AS2. L’Alta Sicurezza è un’infamità dentro quell’infamità che è già il carcere, poiché ti impedisce di avere alcun contatto con i prigionieri “comuni”, oltre ad altre limitazioni che vanno dai colloqui ridotti, alla porta blindata della cella sempre chiusa o all’impossibilità di accedere alle attività alternative (biblioteca e palestra). Molto fastidiosa ci risulta la censura, tutta la nostra corrispondenza in entrata e uscita è letta da un secondino che poi ne spedisce copia al giudice, questo fa sì che le nostre lettere abbiano un ritardo di almeno 20 giorni da quando sono state spedite. Le guardie giustificano tale ritardo lamentandosi della mancanza di personale per far fronte alla mole di posta che riceviamo, invece uomini per sorvegliarci ne hanno parecchi. Sia chiaro, ho voluto tratteggiare qual’è la nostra condizione non perchè ci sentiamo più perseguitati di altri prigionieri, penso sia però utile che chi non è avvezzo alle angherie della galera conosca cosa sia l’Alta Sicurezza. Il carcere comunque in ogni sua forma resterà sempre una merda.

Vedere i fuochi d’artificio di un presidio attorno alle Vallette e ascoltare le grida e gli slogan di tanti compagni con cui abbiamo lottato assieme è una boccata d’aria fresca.

Durante l’udienza del riesame il Pm si è lamentato della reazione seguita ai nostri arresti. Indignato ha elencato al giudice una lunga serie di azioni in nostra solidarietà che in parte non conoscevamo.

Una scena surreale. Costoro devono capire che non possono arrestare qualcuno pensando che il loro gesto non provochi alcuna risposta. Perchè bisognerebbe accettare di essere privati di una persona che fino a ieri ci stava a fianco? I No Tav in questi anni hanno avuto spesso a che fare con la giustizia, ormai quasi nessuno ci crede più. Del resto la lotta e le pratiche sperimentate in Valle nella loro diversità dimostrano che esiste un abisso tra etica e legalità.

Il nostro caso è solo l’ultimo di una lunga serie, mi preme però soffermarmi sull’art. 270 sexies (finalità di terrorismo) che risulta il perno su cui ruota tutta l’inchiesta del 9 dicembre. Noi quattro siamo accusati del sabotaggio del 14 maggio scorso alla Maddalena, un fatto che secondo gli stessi Pm non si qualificherebbe come attentato terroristico se non si considerasse il contesto d’intimidazione e violenza in cui è avvenuto. Il sabotaggio di maggio insieme ad una miriade di atti illegali avvenuti negli ultimi due anni deriverebbe dalla decisione di una parte di movimento (quale non è specificato) di impedire la costruzione del Tav.

Se l’Italia dovesse abbandonare il progetto della Torino-Lione subirebbe un grave danno economico e di immagine in Europa, sostengono. Chiunque si opponga alla costruzione del Tav quindi compie un atto che danneggia in qualche modo il paese e secondo il 270 sexies le condotte che arrecano un grave danno al paese sono da considerare terroristiche.

A rigor di logica, se durante una manifestazione qualcuno occupa una base militare, dove gli Stati Uniti vogliono installare delle antenne che propagano onde pericolose per la salute della popolazione che vive nelle vicinanze, persegue una finalità terroristica, poiché l’Italia subirebbe un grave danno d’immagine nei rapporti internazionali con gli Stati Uniti.

Gli episodi che si inseriscono in questo disegno terroristico degli ultimi due anni sarebbero 111 secondo i Pm si va dai sabotaggi ai mezzi delle ditte che lavorano nel cantiere di Chiomonte alle

scritte nei bagni a Nichelino, dagli scontri di piazza a un pollo morto trovato sotto casa di Esposito, da uno striscione lasciato davanti all’abitazione del sindaco di Susa ai cassonetti bruciati durante una sagra paesana a Sant’Antonino. Si sono dimenticati i furti in appartamento e magari gli incendi boschivi. I magistrati dimenticano che il ritardo nella costruzione del Tav non è dovuto solo alle azioni degli ultimi due anni. Se sono riusciti solo a fare un “pertus” a Chiomonte, è per la forza e la determinazione di una lotta popolare che dura da più di vent’anni.

L’8 dicembre 2005, purtroppo non c’ero, decine di migliaia di persone sono scese nella piana di Venaus distruggendo i mezzi del cantiere, evidentemente tutti terroristi.

Le han provate tutte per spaccare il movimento. Hanno istituito tavoli, comprato amministratori, scritto ogni genere di porcheria sui giornali, poi i manganelli e i lacrimogeni. Hanno provato a criminalizzare alcuni dividendo tra buoni e cattivi ed ora rispolverano il terrorismo. Dopo un po’ risultano scontati e patetici.

Curioso è notare come alcuni che oggi ci accusano di “terrorismo” sono gli stessi che negli anni ’70 usarono la stessa arma per annientare uno dei più straordinari e complessi movimenti rivoluzionari d’Europa, che aveva reso concreti i sogni e i desideri di tanti. La lotta No Tav, con le dovute proporzioni, ha rotto quella cappa di pace sociale che permaneva in questo paese da oltre trent’anni, dimostrando che non solo è possibile opporsi a chi pretende di devastare il territorio in cui viviamo, ma che lottare è molto più piacevole della vita che ci impongono di fare ogni giorno. Ricordo un pensionato di Bussoleno che raccontava che tutta la vita si era battuto per non fare gli straordinari e ora gli toccava star sveglio per 24 ore ad aspettare una trivella.

Dopo aver vissuto la Libera Repubblica della Maddalena o dopo aver costruito una barricata al Vernetto non si può tornare alla vita “normale” come se nulla fosse. Queste rotture improvvise parlano ad altre lotte e aprono nove possibilità. Non è certo chiudendo a chiave qualcuno che potranno prevenire il manifestarsi di nuove occasioni e di rivolte.

Il momento è delicato, sanno che se vogliono aprire i cantieri a Susa il movimento dev’essere spezzato e ridimensionato. Per questo è importante continuare ad andare in Clarea e non lasciar dormire tranquille le truppe d’occupazione come è stato fatto. Il giorno o la notte che decideranno di aprire un altro cantiere in Valle lo faranno dispiegando un gran numero di uomini e mezzi, convinti di impressionarci ed annichilirci con la loro forza. Occorrerà essere vigili e tenere sempre gli scarponi ingrassati. Consapevoli che chi si ribella, per natura, avrà sempre un’idea in più di chi ha deciso di vivere sotto un superiore.

Nessun dispositivo è imbattibile, i posti di blocco si possono aggirare, le reti tagliare e i jersey ribaltare.

Ci sarà da divertirsi.

Un abbraccio forte a tutte e tutti i no tav.

Se incontrate Giacu salutatemelo.

A SARA’ DURA… ovviamente per loro.

Claudio

 

Per scrivere ai quattro arrestati, i nuovi indirizzi sono i seguenti:

Chiara Zenobi
Casa Circondariale Rebibbia
via Bartolo Longo, 92
00156 Roma

 

Claudio Alberto

Casa Circondariale
Via Arginone, 327
44122 Ferrara

 

Mattia Zanotti e Niccolò Blasi

Casa di Reclusione
Via Casale San Michele, 50
15100 Alessandria

http://www.infoaut.org/index.php/blog/no-tavabenicomuni/item/10466-no-tav-trasferiti-i-4-arrestati-del-9-dicembre

 

 

Lettera dal carcere di Chiara, attivista No Tav

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Qui sotto vi proponiamo una bella lettera di Chiara, pubblicato sul sito “macerie“. Ne approfittiamo pure per comunicarvi una novità importante: le indagini contro i quattro arrestati il 9 dicembre sono state chiuse e il processo si aprirà il 18 maggio prossimo, con il rito del giudizio immediato, davanti alla Corte d’Assise di Torino. 

«Carcere delle Vallette, 20 gennaio 2014 

Se potessi scegliere mi troverei proprio dove sono.

Tra i sentieri della Valle, per le vie di Torino, con i miei compagni o specchiandomi negli occhi di donne e uomini sconosciuti, imparando ad ascoltare, scegliendo di aspettare, correndo più veloce.

Mi troverei dove si scopre il sapore dolce e intenso della lotta, qualcuno ti stringe la mano che trema e si getta il cuore oltre l’ostacolo. Lì dove il caldo, continuo e tenace abbraccio della solidarietà non permette a chi è isolato di sentirsi solo, libera la passione di chi è prigioniero e riempie la stanza di presenze amiche.

Mi sono chiesta qualche volta perché non accontentarmi del privilegio di cittadinanza, avere quasi di sicuro una casa, qualche figlio, qualche modo di mettere la pagnotta a tavola. Ma quando scopri che la libertà e l’umanità sono un’altra cosa, quando ti accorgi che gli unici motori della politica e dei gruppi di potere sono il privilegio e il saccheggio, è troppo tardi per tornare indietro. Sei entrato in un altro mondo, che è dove sono io adesso.

In questo luogo non c’è spazio per coloro che misurano la propria misura morale su codici e leggi. Buttare in strada chi non paga l’affitto o in un lager chi non ha documenti, produrre scorie nucleari, salvare il capitale e distribuire miseria, militarizzare e devastare territori. Tutto a norma di legge, in democrazia. Anche il dissenso a condizione che non si metta davvero di traverso alla realizzazione dei piani inesorabili del progresso e del profitto.

Ma quando troppi zoccoli inceppano l’ingranaggio, se un uomo, una piazza o una popolazione diventano imprevedibili ed efficaci, è possibile sentire il rumore delle lame che si affilano. Il corpo delle leggi a difesa delle proprietà pubblica e privata, gonfia tutti i suoi muscoli. Se si scende in strada il giorno sbagliato (o giusto?), insieme ai sampietrini si può raccoglier il macigno della Devastazione e Saccheggio. Se si assume una pratica radicale contro il sistema sociale, è pronta la scure dell’Associazione Sovversiva (o, con un salto in più di fantasia, dell’Associazione a Delinquere). Per tutto il resto si prepara la gabbia del Terrorismo. Qualunque opposizione reale procura danni e rallenta l’avanzata dei progetti, alla fine ogni azione e lotta efficace potrebbero essere imbrigliate in questa categoria di repressione. Lo scopo è facile da individuare: una punizione esemplare per qualcuno, un monito lanciato a tutti gli altri.

Certo, l’idea di tutti gli anni di carcere evocati da tutte quelle parole stringe lo stomaco in una morsa. È molto più doloroso però immaginarsi inermi a guardare il mondo devastato per il vantaggio di pochi. Da tutti noi, che abbiamo imparato la differenza tra giusto e legale e assaporato il gusto di riprenderci le strade e i boschi, con la minaccia della galera non otterranno un granché. E neanche ci inganneranno con il valore simbolico delle loro accuse, perché sappiamo da dove nasce il terrore e ne conosciamo i manganelli, i gas, le reti. E gli eserciti, le armi, le sbarre.

 Non dobbiamo avere paura. Lasciamola respirare a quelli che vivono blindati in un’esistenza spesa a difesa dei propri privilegi e delle proprie mire di saccheggio.

 Io, in questa gabbia ho i polmoni pieni della libertà che ho imparato ad amare lottando, tra i sentieri e per le vie.

 E come me molti altri. Voi. Solidali, complici e inarrestabili.

 Chiara»

 *** *** ***

Ricordiamo che Chiara è stata trasferita e il nuovo indirizzo al quale scriverle è:

Chiara Zenobi – Casa Circondariale Rebibbia via Bartolo Longo, 92 00156 Roma

Fonte: http://www.osservatoriorepressione.info

Lettera dal carcere di Chiara, attivista No Tav – contropiano.org.

 

Bellomonte è libero, la lotta continua!

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Mercoledì scorso a tarda sera è arrivata una notizia che attendevamo da tempo. Bruno Bellomonte, dirigente storico della sinistra indipendentista sarda, è stato assolto in via definitiva dal Tribunale della Cassazione.

Bruno Bellomonte ha trascorso quasi tre anni da deportato tra Viterbo e Siano con l’accusa di essere un rifondatore dell’organizzazione comunista armata “Brigate Rosse” e in particolare di essere coinvolto nel fantasioso piano per il bombardamento aereo del vertice G8 a La Maddalena.

Invano la nostra organizzazione ha richiesto l’applicazione della territorialità della pena per permettere a Bruno di scontare la custodia cautelare nella sua terra, vicino ai suoi affetti e alla sua organizzazione. Ma questo è soltanto uno fra i diritti umani, civili e politici di Bruno Bellomonte che sono stati violati.

Ricordiamo che Bruno Bellomonte è stato licenziato dalle Ferrovie ancor prima di essere rinviato a giudizio con la motivazione di essere “assenteista” (era in prigione!). L’immagine e la reputazione di Bruno Bellomonte è stata distrutta da quasi tutti i media (salvo rare e significative eccezioni), i quali hanno giudicato Bellomonte come un mostro per il solo fatto di essere seduto al banco degli imputati. Ricordiamo che Bellomonte è stato anche candidato alla carica di sindaco di Sassari mentre era in prigione e che, nonostante fosse un suo pieno diritto, gli è stato impedito di votare, in aperta violazione dei suoi diritti civili e politici.

A Manca pro s’Indipendentzia ricorda che questo processo farsa è costato la vita ad un compagno italiano il cui cuore si è spezzato nell’indifferenza gelida dei suoi carcerieri i quali, in seguito alle sue lamentele che denunciavano forti dolori cardiaci, l’hanno rispedito in cella con un’aspirina. In questo momento di gioia per l’assoluzione di Bellomonte non possiamo non stringere i pugni e sollevarli al cielo ricordando il compagno Gigi Fallico lasciato morire dallo Stato come un cane perché comunista!

A Manca pro s’Indipendendentzia esprime solidarietà a tutti i compagni coinvolti in questo processo che purtroppo continuano ad essere detenuti nonostate la tesi accusatoria sia stata completamente smontata.

A Manca pro s’Indipendentzia sa bene che lo stato italiano, impotente difronte all’avanzare delle istanze indipendentiste nel nostro Paese, intensificherà due direttrici difensive già messe in pratica nell’ultimo decennio. Da una parte l’assimilazione di quell’indipendentismo di facciata pronto a vendersi per un piatto di lenticchie per riassorbire la potenzialità di rottura delle idee e delle proposte di autodeterminazione e autogoverno. Dall’altra l’intensificarsi della repressione poliziesca, della censura mediatica e del tentativo di criminalizzazione di quella parte del movimento di liberazione nazionale che risulta impossibile comprare ed annacquare.

A Manca pro s’Indipendentzia è matura per affrontare con serenità e determinazione le prossime sfide, a partire dal processo all’indipendentismo che si aprirà a giugno a Sassari in seguito alla famigerata “operazione Arcadia” che nel 2006 portò all’arresto di numerosi militanti della sinistra indipendentista sarda.

A Manca pro s’Indipendentzia ringrazia quelle centinaia di persone che in questi anni si sono strette a difesa del nostro partito dimostrando allo stato coloniale che chi tocca un figlio libero di Sardigna tocca anche tutti gli altri e che nonostante le apparenze, ancora una volta, l’assedio è reciproco!

A Manca pro s’Indipendentzia

Non hanno mai chiesto scusa ai familiari di Federico Aldrovandi, non hanno mai avuto l’atteggiamento di chi è dispiaciuto per aver tolto la vita ad un ragazzo

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di Claudia Guido

Conosco Patrizia Moretti da tre anni quasi. E’ inutile raccontarvela, solo chi la conosce capisce di cosa parlo, di quanta bellezza viva dentro di lei. Sono quasi 3 anni che cerco di essere assolutamente diplomatica, di non esporre il fianco all’enfasi del dolore, che quando piango con lei cerco di stare calma, che quando parlo di suo figlio in giro per l’Italia respiro profondamente ed evito opinioni personali: mi limito ad esporre i fatti talmente vergognosi da bastare a raccontare quasi tutto. Sono quasi 3 anni che sto attenta a qualsiasi parola scriva o dica alle mostre di “Licenza di tortura”. Perché fino alla cassazione non si poteva dire a voce alta che Federico era stato ucciso. Non si potevano chiamare “assassini” i suoi aguzzini. E dopo la cassazione bisognava comunque essere cauti.
Bisogna sempre ricordare che essendo loro protetti da una divisa, (da un corpo più che militare, sostanzialmente armato) è meglio parlare a voce bassa, perché loro non hanno il coltello dalla parte del manico: hanno la legge, hanno i colleghi, hanno questure intere, hanno pm, hanno l’ignoranza  e il disinteresse della gente, hanno i giornali e i giornalisti, hanno le televisioni, hanno le serie tivvù, hanno i sindacati e le associazioni.
Sono quasi 3 anni che mi viene chiesto in continuazione il perché di un progetto come “Licenza di Tortura”. Ho sempre risposto che il motivo è stata una necessità di fare qualcosa, ma ogni singola volta avrei voluto guardare in faccia il mio interlocutore e chiedergli severa: “La domanda giusta è perché tu non stai facendo niente.”
Non ce la faccio più ad essere diplomatica, non ora che Monica Segatto, Enzo Pontani, Luca Pollastri e nientemeno che Paolo Forlani (colui che diede della faccia da culo a Patrizia dopo la Cassazione) ossia i 4 assassini di Federico sono tornati ai loro posti, di blu vestiti e armati.
Non ce la faccio ora che mi fanno troppo male le lacrime di Patrizia, le non-lacrime di Stefano, lo sguardo verso il cielo di Lino.
A loro chi ci pensa?
Sono 8 anni che chiedono una sola cosa. Non hanno espresso opinioni riguardo alla durata della pena, c’era solo una legittima richiesta: che i 4 fossero licenziati, che non fossero mai più messi nella posizione di poter rifare quello che hanno fatto.
Monica Segatto, Enzo Pontani, Luca Pollastri e Paolo Forlani hanno ucciso a bastonate un ragazzo di 18 anni. Hanno aspettato 6 ore per avvisare la famiglia, perché dovevano accordarsi. Hanno depistato, omesso, mentito. A causa dei depistaggi operati anche dai loro colleghi hanno avuto una condanna per un omicidio che di colposo non ha assolutamente niente. Sono stati condannati a 3 anni e 6 mesi, 3 anni sono stati indultati. Due di loro hanno scontato la pena rimanente ai domiciliari.
Non hanno mai chiesto scusa ai familiari di Federico, non hanno mai avuto l’atteggiamento di chi è dispiaciuto per aver tolto la vita ad un ragazzo.
In tutto questo, ora possono tornare a lavorare, e oltre al danno la beffa, perché sono nostri dipendenti e li paghiamo noi, li paga anche Patrizia, anche voi tutti, ma allora è possibile che non valga la nostra legittima richiesta?

Solo che in tutto questo io non ce la faccio proprio più ad essere politicamente corretta. Io non ce la faccio più a sostenere l’assenza della politica in questa faccenda, e anche l’assenza di chi non si preoccupa di quanto hanno fatto a Federico Aldrovandi.
Se non avete tempo di fare altro, almeno aiutateci a chiedere che questi 4 nostri dipendenti vengano licenziati. Fatelo sui social, fatelo via posta, fatelo con bandiere fuori dalle vostre case, fatelo con striscioni attaccati a deltaplani, scrivete canzoni, libri, film, diffondete il verbo, fate come vi pare ma smettetela di chiamarvene fuori perché è solo un caso che sia successo a loro e non a noi.

* fotografa, associazione Federico Aldrovandi

Non hanno mai chiesto scusa ai familiari di Federico Aldrovandi, non hanno mai avuto l’atteggiamento di chi è dispiaciuto per aver tolto la vita ad un ragazzo.

Ilaria Cucchi: “Sono indagata per aver reclamato verità e giustizia per la morte di Federico, di Michele, di Giuseppe, di Dino e di tanti altri morti di Stato”

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Ebbene si! Sono sono sottoposta ad indagini dalla procura della repubblica di Roma.
Mi ha querelato il signor Maccari del sindacato della polizia di Stato COISP.
Sono indagata per aver offeso l’onore della Polizia di Stato e di tutti i poliziotti che ne fanno parte.
Sono indagata per aver reclamato verità e giustizia per la morte di Federico, di Michele, di Giuseppe, di Dino e di tanti altri morti di Stato.
Sono indagata per essermi ribellata alla mistificazione ed alle infamanti menzogne sulla morte di mio fratello.
Io non mi fermerò, mai. Non avrò pace fino a quando non avrò ottenuto giustizia.
Io voglio confessare tutto, ogni cosa.
Queste morti offendono la Polizia, questo è sicuro. Offendono lo Stato. Questo è altrettanto sicuro. Offendono tutti.
Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Dino Budroni, Federico Perna, Gabriele Sandri e tanti tanti altri non dovevano morire. No. È colpa loro se è stato offeso lo Stato.
Stefano Cucchi è morto per essere stato portato nel Tribunale di piazzale Clodio, a Roma e poi all’ospedale Pertini.
Stefano Cucchi non doveva morire. La colpa è sua se la polizia si sente offesa.
È colpa mia. Voglio essere processata per questo.
Questi padri figli fratelli non dovevano morire. E siccome sono morti noi famigliari dovevamo stare zitti. Il dolore e le tremende sofferenze alle quali sono stati sottoposti non sono importanti. No. Loro non dovevano morire e se sono morti è colpa loro. Tutta colpa loro. E noi tutti, soprattutto, dovevamo e dobbiamo stare zitti.
Zitti.
E ringraziare.

30 gennaio 2014

Ilaria Cucchi: “Sono indagata per aver reclamato verità e giustizia per la morte di Federico, di Michele, di Giuseppe, di Dino e di tanti altri morti di Stato”.

 

Poggioreale: si indaga sulla cella delle torture

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Che nel carcere di Poggioreale ci fosse una cella all’interno della quale sono avvenuti per anni tremendi pestaggi delle guardie nei confronti dei detenuti si sapeva da anni, molti dei pestati lo avevano denunciato ma la notizia era rimasta appannaggio “dell’ambiente”. Qualche giorno fa l’intervista pubblicata da alcuni siti ad un detenuto che raccontava in maniera dettagliata le botte subite e il metodo di punizione scientificamente adottato dalle guardie carcerarie nei confronti dei riottosi è servita finalmente a sollevare il problema pubblicamente. Il video ha fatto il giro del web ed ora finalmente la Procura di Napoli si è decisa ad aprire un’inchiesta. Si tratta di un atto dovuto, spiegano, dal momento che la garante dei diritti dei detenuti della Campania, Adriana Tocco, ha inviato in Procura un dettagliato esposto in merito. A coordinare gli accertamenti sarà il procuratore aggiunto Alfonso D’Avino.

Cosa accadeva (o accade ancora?) nella cosiddetta ‘cella zero’? Ha raccontato per esempio un ex detenuto a Fanpage.it: «Erano le dieci e mezza di sera. All’improvviso, senza motivo sono stato portato giù nella cella zero: le guardie mi hanno fatto spogliare nudo, mi hanno picchiato, mi hanno umiliato. La cella zero è una cella del piano terra dove ti puniscono, ti picchiano, è isolata da telecamere e da tutto». Alcuni testimoni hanno riferito anche di schizzi di sangue sulle pareti, di squadre di agenti della polizia penitenziaria che infliggono punizioni ingiustificate quanto dure.

Scriveva il settimanale l’Espresso pochi giorni fa in merito:

Uno dei carcerati picchiati si chiama Luigi (è un nome di fantasia). E’ stato condannato a due anni e dieci mesi, nel marzo 2011, per ricettazione di buoni pasto per un valore di trentamila euro. Durante la permanenza nel carcere di Poggioreale è stato vittima di atti di violenza da parte di tre guardie penitenziarie: trascinato di notte in una cella isolata dell’istituto di pena, ha spiegato di esser stato costretto a denudarsi completamente per poi essere percosso con pugni e calci. L’ex detenuto è uscito dall’istituto di pena lo scorso 10 gennaio, ma già dietro le sbarre aveva deciso di denunciare le violenze subite.
Luigi, 42 anni, comproprietario di una salumeria a Napoli, sposato con figli adolescenti, dopo un primo periodo detentivo, in appello ottiene gli arresti domiciliari con successiva autorizzazione a riprendere il lavoro. Un giorno, andando al negozio, fa tardi e sfora l’orario assegnato dai giudici. Per lui ricominciano i guai. La Corte di appello aggrava la misura restrittiva e così Luigi finisce di nuovo a Poggioreale. Nei due mesi e mezzo di detenzione che deve ancora scontare gli capita un incidente: cade dal letto a castello, un terzo piano a quattro metri dal pavimento, e si frattura una caviglia. Poi, in una notte di luglio arriva il pestaggio da parte di tre agenti penitenziari.
Scontata la pena e tornato libero, Luigi ha messo nero su bianco il racconto dei maltrattamenti subiti dietro le sbarre. 

Presto potrebbero essere acquisiti altri documenti in possesso del garante, ma anche di associazioni o di avvocati particolarmente sensibili al tema. Il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha già fatto sapere che offrirà ai magistrati la massima collaborazione, rivendicando la professionalità e il senso di giustizia del proprio personale. Ma tra i familiari dei detenuti restano molti dubbi sul fatto che l’indagine andrà fino in fondo, e cresce la richiesta che i responsabili dei pestaggi vengano individuati e puniti.

Il caso della «cella zero», però, potrebbe non essere l’unico sul quale la Procura di Napoli dovrà condurre accertamenti. Adriana Tocco riferisce al Corriere del Mezzogiorno che «le denunce per maltrattamenti in tutto sono circa 150». Alcune sono individuali, una «è sottoscritta da 50 detenuti, e l’ho già inoltrata alla Procura, un’altra mi è appena arrivata ed è firmata da 70 reclusi». La «cella zero», però, quella non sa se esista: «Ho segnalato alla magistratura ciò che i detenuti hanno riferito. Io non l’ho mai vista, ma chiederò di poter effettuare un sopralluogo nel carcere di Poggioreale per appurare se c’è o meno». Le segnalazioni in questione — precisa la garante — sono «tutte firmate», mentre quelle anonime vengono girate all’ufficio ispettivo del Dap. Che, sul caso della «cella zero», avvierà un’inchiesta interna. «Da Secondigliano non ho ricevuto alcuna segnalazione di maltrattamenti, le denunce riguardano solo Poggioreale. Penso che ciò sia dovuto sia al fatto che gli altri istituti non hanno un numero così elevato di detenuti, sia alla circostanza che questa situazione di affollamento determina una situazione di stress tra il personale della polizia penitenziaria. Beninteso, questo non giustifica nulla, ma per onestà intellettuale devo anche dire che gli stessi reclusi — nella maggioranza dei casi — parlano di agenti molto professionali e collaborativi» aggiunge Tocco. Di nuovo la teoria delle ‘poche e isolate mele marce che non inficiano professionalità e correttezza delle forze dell’ordine”.

I razzisti gli tagliano l’orecchio, lo Stato lo arresta per espellerlo

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Il migrante iraniano che aveva perso l’orecchio sinistro in seguito ad un attacco a sfondo razziale a ottobre dello scorso anno è stato arrestato. Ora rischia di essere espulso perché è senza documenti. Stando a quanto riporta il giornale “Efsyn”, mentre il procuratore per i crimini a sfondo razziale sta svolgendo le indagini preliminari, l’ufficio competente della polizia ha ignorato l’incidente per 3 mesi e in modo metodico ha arrestato la vittima consegnandola alla polizia per gli stranieri senza collaborare con il procuratore.

Shaid è stato aggredito il 18 ottobre 2013, in piazza Metaxourgio, da tre uomini vestiti in nero. Uno di loro gli ha stretto il collo e… “con i suoi denti mi ha tagliato l’orecchio, sanguinavo e il mio orecchio è caduto per terra. Un amico mi ha visto, siamo andati con l’orecchio tagliato all’ospedale, ma l’operazione per riattaccarlo non è riuscita e così ho perso l’orecchio”, dice lui stesso.

È stato ricoverato per una settimana presso un ospedale pubblico, come caso urgente. “Medici e personale ospedaliero lo hanno aiutato e nessuno si è preoccupato del fatto che non avesse i documenti” spiega al giornale “Ef.Syn” Christina Psarra dei Medici del Mondo, dove si è rifugiato Shaid dopo l’ospedale.

Due mesi e mezzo dopo l’incidente, e dopo che Shaid aveva ottenuto il necessario sostegno medico, legale e sociale, i Medici del Mondo hanno pubblicato la sua storia con un video che è circolato la settimana scorsa.

La testimonianza di Shaid

“Il dipartimento per i reati a sfondo razziale non ha fatto nulla fino alla pubblicazione della storia” sottolinea il suo avvocato, Vassilis Kerasiotis, del Consiglio Greco per i Rifugiati, che aveva effettuato la denuncia il giorno stesso dell’aggressione. “Come avvocato, non posso recarmi dalla polizia, visto che la vittima è senza documenti. Per cui la denuncia è stata effettuata per telefono” [apposita linea verde, ndt].

Venerdì scorso, la polizia ha chiamato Shaid a casa sua, “pescando” un amico per vedere dove abitesse. In modo molto amichevole, lo hanno portato alla Direzione Centrale della Polizia di Attica per testimoniare. Senza tenere in conto il fatto che si tratta di una vittima di un attacco a sfondo razziale, la polizia lo ha arrestato e poi lo ha portato all’ufficio espulsioni. Lunedì scorso è stata emessa la decisione di immediata espulsione. Entro 6 giorni dovrà abbandonare il paese. In seguito a forti pressioni è stato rimesso in libertà con l’obbligo di lasciare il paese.

Proprio due giorni fa, il capo della Procura di Atene, P. Fakou, aveva ordinato le indagini preliminari per l’aggressione, in seguito alla pubblicazione della storia. “Ormai la responsabilità non è solo della polizia, ma anche del procuratore. È un caso simile a quello dell’aggressione ai lavoratori di Manolada, bisogna fornirgli un permesso finché durano le indagini”, sottolinea il suo avvocato.

Da Atenecalling.org

http://www.infoaut.org/index.php/blog/antifascismoanuove-destre/item/10480-i-razzisti-gli-tagliano-l%E2%80%99orecchio-lo-stato-lo-arresta-per-espellerlo

Cucchi, Ferrulli, Uva: pioggia di querele del coisp

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Perché prendersela con Lucia Uva, Domenica Ferrulli, Ilaria Cucchi e contro chi si indigna per i troppi casi di malapolizia?

«Oggi ho appreso di essere stata denunciuta dal COISP dal sig. Franco Maccari,oltre me hanno denunciato anche Lucia Uva e Ilaria Cucchi – scrive Domenica Ferrulli – Non so ancora per Quale reato sono stata denunciata, domani il mio avvocato Fabio Anselmo si recherà in procura aRoma per ritirare il fascicolo a mio carico. Questa per me è la prima denuncia se dire la verità costituisce reato, io andrò avanti a commettere reati, tanti reati, continuerò a dire la verità che tutti conosciamo.

In Italia funziona così chi ammazza i nostri cari rivestendo una divisa, negando spudoratamente anche d’avanti ai giudici, dopo aver fatto un giuramento continua a lavorare e chi dice la verità viene denunciato. 

Non mi fermerò continuerò a dire la verità, non sono spaventata, vogliono condannarmi per aver detto la verità?, io mi assumo le mie responsabilità, non ho nulla da temere chi ha qualcosa da temere e chi indossa una divisa sporca di sangue. La divisa è sacra rappresenta lo stato, chi ha ucciso non è degno di indossare una divisa, deve essere buttto fuori dalle istituzioni. Grazie a tutti»

Lucia Uva, sorella di Giuseppe, ucciso dopo alcune ore di permanenza in caserma a Varese. Domenica Ferrulli, figlia di Michele, ucciso a Milano, per strada, per un infarto indotto dal pestaggio di quattro agenti. Aveva il volume dello stereo troppo alto. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ucciso in un calvario tra guardine dei carabinieri, celle di tribunale, carcere e ospedale penitenziario. Leonardo Fiorentini, cittadino ferrarese, indignato per la provocazione del Coisp a Patrizia Aldrovandi, mamma di Federico, ucciso da quattro poliziotti. 

Tutte queste persone hanno in comune il fatto di essere state querelate – gli avvisi sono stati recapitato oggi – dal leader del Coisp, un sindacatino di polizia, una scissione del Sap, balzato agli onori delle cronache per le provocazioni mediatiche e no nei confronti delle vittime di malapolizia e dei loro familiari. Ogni 20 luglio provano a manifestare in piazza Alimonda, fingendo di non sapere che Carlo Giuliani raccolse l’estintore dopo aver visto una pistola impugnata da killer contro di sé. E l’anno passato la sigla ebbe la brillante idea di manifestare sotto il palazzo che ospita il Comune di Ferrara in solidarietà coi quattro colpevoli dell’omicidio di Federico Aldrovandi. Ma in quel palazzo lavora Patrizia Moretti, la madre di Federico, che fu costretta a scendere per mostrare al manipolo di poliziotti sindacalisti la foto di suo figlio morto. Ne seguì un’indignazione generale con migliaia di persone che manifestarono a Ferrara in solidarietà con la famiglia Aldrovandi e un sostanziale isolamento del sindacatino anche da parte di altre strutture sindacali non certo tacciabili di morbidezza nei confronti dei movimenti sociali e della società civile. 

La reazione del Coisp è stata furibonda con decine e decine di querele a giornalisti, politici, cittadini e anche ai familiari delle vittime, spesso sfiancati da estenuanti battaglie processuali. 

A che cosa serve quest’ondata di querele destinate, si spera, a finire in archiviazioni? A parlare alla “pancia” della polizia di stato per fare un po’ di tessere o a sfruttare l’occasione per cavalcare la piccola popolarità del clamore delle cronache? In entrambi i casi, è una rivelazione ennesima dei limiti dell’imperfetto sindacalismo di polizia e della distanza siderale che separa la società dalla brevissima stagione della riforma della polizia in senso democratico.

Ma c’è un’altra Italia che, con lentezza, sta maturando l’idea che un’altra polizia è possibile, che non deve accadere mai più che un cittadino possa incappare in un controllo di polizia così brutale da ucciderlo e in apparati così omertosi da depistare e insabbiare le indagini. E’ un’Italia altra che nasce da quel Paese dei comitati fatti da genitori, fratelli, amici e compagni di chi è morto in piazza, in strada o in treno per mano di fascisti, mafiosi, poliziotti impazziti o pezzi di servizi più o meno deviati. E’ una lunga marcia che una pioggia di querele non potrà fermare.

 

 

popoff.globalist.it | Cucchi, Ferrulli, Uva: pioggia di querele del Coisp.

 

31 gennaio 1881 nasce Bruno Buozzi

Nato a Pontelagoscuro (Ferrara) il 13 gennaio 1881, ucciso dai tedeschi a La Storta (Roma) il 4 giugno 1944, dirigente sindacale socialista.

Era stato costretto a lasciare la scuola dopo le elementari e fece, da ragazzo, il meccanico aggiustatore. Quando si trasferì a Milano, trovò lavoro come operaio specializzato alle Officine Marelli e poi alla Bianchi. Nel 1905 aderì al sindacato degli operai metallurgici e al PSI, militando nella frazione riformista di Turati. Nel 1920 fu tra i promotori del movimento per l’occupazione delle fabbriche. Più volte eletto deputato socialista prima della presa del potere da parte del fascismo, Bruno Buozzi nel 1926 espatriò in Francia, dove continuò, nella Concentrazione antifascista, l’attività unitaria contro il regime di Mussolini.
Durante la guerra di Spagna, per incarico del suo partito, diresse l’opera d’organizzazione, raccolta e invio di aiuti alla Repubblica democratica attaccata dai franchisti. Alla vigilia dell’occupazione tedesca di Parigi, Buozzi si trasferì a Tours. Lo tradì il comprensibile desiderio di visitare, a Parigi, la figlia partoriente. Nel febbraio del 1941 fu, infatti, arrestato dai tedeschi nella Capitale francese. Rinchiuso dapprima nelle carceri della Santé, fu successivamente trasferito in Germania e, di qui, in Italia dove rimase per due anni al confino in provincia di Perugia.
Riacquistata la libertà alla caduta del fascismo, ai primi di agosto del 1943, Bruno Buozzi fu nominato dal governo Badoglio, insieme al comunista Giovanni Roveda e al democristiano Gioacchino Quarello, commissario alla Confederazione dei sindacati dell’industria. Durante l’occupazione nazista di Roma, Buozzi trovò ospitalità presso un amico colonnello e, quando questi dovette darsi alla macchia, cercò un altro precario rifugio, dove fu sorpreso dalla polizia.
Era il 13 aprile 1944. Fermato per accertamenti e condotto in via Tasso, i fascisti scoprirono la vera identità del sindacalista. Il CLN di Roma tentò a più riprese, ma senza successo, di organizzarne l’evasione e il 1° giugno 1944, quando gli americani erano ormai alle porte della Capitale, il nome di Bruno Buozzi fu incluso dalla polizia tedesca in un elenco di 160 prigionieri destinati ad essere evacuati da Roma. La sera del 3 giugno, con altri 12 compagni, Buozzi fu caricato su un camion tedesco, che si avviò lungo la via Cassia, ingombra di truppe in ritirata. In località La Storta, forse per la difficoltà di proseguire, l’automezzo si fermò e i prigionieri furono fatti scendere. Rinchiuso in un fienile per la notte, all’indomani il gruppo fu brutalmente sospinto in una valletta e Bruno Buozzi – sembra per ordine del capitano delle SS Erich Priebke – fu trucidato con tutti i suoi compagni.
Dopo la Liberazione, a Bruno Buozzi sono state intitolate strade e piazze a Roma e in molte altre città d’Italia. Portano il suo nome anche cooperative, associazioni sportive, scuole. Una Fondazione Bruno Buozzi, che ha tra i suoi compiti quello di incrementare gli studi sul sindacalismo, si è costituita a Roma il 24 gennaio 2003. La presiede Giorgio Benvenuto.ImmagineImmagineImmagine

 

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Gli Aldrovandi: «Quei quattro non meritano di lavorare per lo Stato»

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«Non voglio che questi assassini restino in circolazione, non voglio pagare lo stipendio a quelli che hanno ammazzato mio, non voglio pagarlo io non voglio che lo paghi tu o nessun altro. Queste persone non meritano di lavorare per lo Stato», dice in lacrime Patrizia Moretti e racconta alle Iene, per l’ennesima volta, la storia più straziante della sua vita. 

Quella dell’uccisione di suo figlio, Federico Aldrovandi, avvenuta a Ferrara all’alba del 25 settembre 2005, da parte di quattro agenti di polizia che, per quell’omicidio colposo, sono stati condannati a 3 anni e 6 mesi, ne hanno scontato uno scampolo di sei mesi e dopo altri sei mesi di sospensione tre di loro sono tornati – o stanno per farlo – in servizio. Eppure il loro non è un banale omicidio colposo, come se avessero investito un pedone sulle striscie o facendo manovra. In fondo al servizio, Lino Aldrovandi, il padre di Federico, ricorderà la scia di depistaggi e bugie (c’è un altro processo che ha già prodotto condanne) che seguì quella morte fino alle sentenze e oltre. 

Ma proprio mentre la famiglia, dopo tre gradi di giudizio, si aspettava un provvedimento disciplinare adeguato è arrivato il momento degli attacchi. Ad esempio dal Coisp, un sindacato che – senza curarsi di leggere sentenze e ordinanze – chiedeva, sotto l’edificio in cui lavora Patrizia, l’applicazione del decreto salva carceri per i quattro colpevoli e denuncia chiunque critichi i suoi metodi di proselitsmo e propaganda. Tra le forze dell’ordine è vivido il fastidio per una sentenza del genere. Un poliziotto, travisato dalla telecamera, riassume al reporter delle Iene il senso comune del Corpo per casi come questo, dice che i colleghi sono stati sfortunati e che Federico doveva essere fermato a schiaffi. Chi se l’aspettava che ci sarebbe rimasto? E già, nemmeno lui s’è mai preso la briga di leggersi le carte. Ecco, perciò, un piccolo promemoria. 

«Non riesce il tribunale a individuare qualsivoglia elemento di meritevolezza atto a sostenere la concessione e poi la corretta fruizione, ai fini rieducativi, dei benefici penitenziari»: quattro fitte pagine per respingere le istanze di affidamento in prova, di detenzione domiciliare o di semilibertà. Così esattamente un anno fa il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha stabilito che tre dei quattro agenti che infierirono con calci, pugni e manganelli su Federico Aldrovandi, un diciottenne solo, in stato di agitazione e disarmato, avrebbero dovuto scontare sei mesi di carcere, gli altri tre anni sono indultati perché il delitto è stato commesso prima del 2006. Per il quarto la decisione era solo rinviata per un difetto di notifica. I quattro hanno operato in concorso tra loro e hanno sempre teso a rendere indistinguibili le condotte. 

L’ordinanza del tribunale, presieduto da Francesco Maisto, richiama le motivazioni delle sentenze tutte concordi nel sottolineare la violenza esercitata dai quattro agenti delle volanti accorsi in via Ippodromo all’alba del 25 settembre del 2005: lo hanno percosso «anche quando il ragazzo ormai era a terra e nonostante le sue invocazioni di aiuto, fino a sovrastarlo letteralmente di botte (e anche a calci) e con il peso del corpo… fino a provocarne in definitiva la morte». I quattro sono venuti meno al dovere di «interrogarsi sull’azione dei colleghi, se del caso agendo per regolarla, moderandola». Hanno agito come un branco «anche se erano al corrente dei rischi per la salute derivanti dall’esercizio di una notevole, continuata e intensa forza». 

Ecco perchè nemmeno sono state concesse loro le attenuanti: i loro difensori hanno ricordato che erano incensurati ma per il giudice è «una condizione doverosa» per chi fa un mestiere del genere. Non solo: «Pubblici ufficiali, privi di proedecenti disciplinari, sono infatti portatori di un ben diverso onere di lealtà e correttezza processuale, rispetto a un imputato comune, e avrebbero dovuto portare un contributo di verità, ad onta delle manipolazioni ordite dai superiori. Il non avere voluto squarciare il velo della cortina di manipolazioni delle fonti di prova, tessuta fin dalle prime ore … getta una luce negativa sulla personalità degli appellanti». Con buona pace dell’«onorevole stato di servizio» vantato dalle difese. Ma i quattro anche al processo «hanno omesso di fornire un contributo di verità, da reputarsi doveroso da parte di pubblici ufficiali». Invece no, loro hanno coperto i superiori che li coprivano! «Alla gravità della colpa – scrive ancora il Tribunale – si associano gli aspetti negativi più propriamente processuali con l’assenza di concreti segni di pentimento e di consapevolezza degli errori commessi, tradottisi in palesi menzogne e ostacoli all’accertamento della verità».

Inaffidabili, dunque, senza autocontrollo né capacità di gestire adeguatamente una situazione. Ecco perché, per i giudici «non è dato di individuare una positiva evoluzione della personalità dei soggetti» che non hanno nemmeno «provato a mostrare l’effettiva comprensione della vicenda delittuosa». E autocritica o gesti simbolici, in sintesi, nemmeno a parlarne.