Torino. Vietato protestare ai lavoratori dei mercati generali

La questura di Torino opta per la repressione preventiva. Gli operai della logistica dei mercati generali hanno ricevuto ieri una diffida che gli intima di non protestare davanti al CAAT durante lo sciopero generale del 27 ottobre. Il messaggio è chiaro: non deve esistere un sindacalismo che non è al servizio delle cooperative o dei lavoratori che pensino che lo sciopero non debba essere una sfilata ma una protesta incisiva che faccia male a chi li sfrutta. Di seguito il comunicato del SI COBAS Torino su questo grave attacco alla libertà di manifestare.

Torino. Vietato protestare ai lavoratori dei mercati generali

Oggi, “per motivi di ordine e pubblica sicurezza”, la Questura di Torino ha diffidato “i promotori e gli organizzatori” della “manifestazione di protesta dei lavoratori della nottata di venerdì 27 ottobre” da “tenere all’ingresso del Centro Agro Alimentare” di Torino: ovvero, della protesta che i facchini del CAAT stanno organizzando in occasione dello sciopero generale nazionale.

La protesta dei facchini al CAAT nasce da ragioni note, che i lavoratori del SiCobas hanno nuovamente spiegato nella conferenza stampa di stamane, proprio davanti al CAAT: innanzitutto, chiedendo le immediate dimissioni del nuovo presidente dei movimentatori Kamel Tarek e l’applicazione per tutti i lavoratori del mercato del contratto collettivo nazionale della logistica.

Da anni, al CAAT di Torino, le centinaia di facchini che – usando le loro parole – “ogni notte fanno il miracolo di dare da mangiare alla città” (spostando faticosamente tonnellate di cibo per rifornire mercati, negozi e supermercati), lavorano in condizioni di palese sfruttamento: rapporti in nero, ore non pagate, evasione contributiva e fiscale costituiscono infatti la normalità nel sito di Grugliasco, peraltro di proprietà al 92% del Comune di Torino. Di questo sfruttamento, Kamel Tarek con le sue cooperative rappresenta l’uomo-simbolo.

Come mai, nonostante i tanti tavoli istituzionali e le numerose segnalazioni e denunce, nessuno – tra Questura, Comune e media – è finora intervenuto risolutivamente contro lo sfruttamento al CAAT, così lasciando soli quei facchini auto-organizzati che stanno coraggiosamente battendosi per ottenere i loro diritti? Perché, invece, a chi nei luoghi di lavoro chiede il riconoscimento di diritti fondamentali per tutti, si risponde o con l’inettitudine istituzionale o la forza poliziesca.

Al di là della formalità, questa diffida della Questura è un attacco ai lavoratori del mercato orto-frutticolo che lottano per migliorare la loro condizione!

Domani notte difenderemo la nostra libertà!

Chi ama la libertà è con noi domani (venerdi) all’una di notte davanti al CAAT in Strada del Portone 10  a  Grugliasco .

Lavoratori Sicobas del CAAT

27 Ottobre, è sciopero generale!

Lo sciopero arriva nel contesto dell’inizio della campagna elettorale, dominata da discussione prive di alcuna ricaduta reale sui problemi sociali reali. Disoccupazione dilagante e sfruttamento sul lavoro, welfare sempre più inesistente e tagli a sanità, istruzione, edilizia popolare sono assenti dalle discussioni politiche dei partiti, che tra allarmi sicurezza e leggi elettorale gettano fumo negli occhi per spostare l’attenzione dalle non casuali mancanze di azione sui temi reali.

Mentre la finanziaria di prossima approvazione si caratterizzerà per un impianto tutto elettorale, a base di mancette e bonus per raggranellare qualche voto in più, la realtà del paese parla di estensione della precarietà e dello sfruttamento anche al mondo della scuola tramite la messa in marcia dell’Alternanza Scuola-Lavoro, di licenziamenti sempre più facili e intimidazioni ai danni dei lavoratori “scomodi”, di restringimento dei diritti sindacali e di un impoverimento sociale sempre più diffuso.

Tra i punti dirimenti dello sciopero ci sarò la volontà di dimostrare l’impossibilità di tenere fuori il sindacalismo di base conflittuale dalle trattative per il nuovo CCNL del settore della logistica. Un settore sempre più centrale nella logica organizzativa del capitale, che ne fa un ambito decisivo di intervento politico e che non esita di concerto con le istituzioni a diffidare i lavoratori dalle proteste, come nel caso di Torino.

In questo ambito è evidente lo sforzo recente di CGIL, CISL e UIL nel voler porsi a elemento “responsabile” tra padroni e lavoratori, che tradotto significa ottenere briciole da un nuovo contratto nazionale discusso senza l’oste, ovvero i sindacati di base più rappresentativi nel settore. I confederali, a causa dell’incastro di date dovuto alle normative che regolano la chiamata degli scioperi, sono stati costretti rincorrere questa mobilitazione scioperando il 27. Ciò renderà la data, loro malgrado, ancora più incisiva.

L’occasione è insomma ottima per riportare la realtà all’interno degli schermi televisivi, a partire dalla piattaforma comune di mobilitazione lanciata dalle sigle sindacali SI COBAS, CUB, SGB, USI-AIT e SLAI COBAS. Lo sciopero generale del 16 giugno aveva già avuto la capacità di sollevare le reazioni di Renzi e Delrio, evidentemente innervositi dalla riuscita di quella giornata di lotta: non a caso, il Ministero dei Trasporti ha ridotto d’imperio a 4 ore lo sciopero nel comparto trasporti, mentre i giornali asserviti già creano narrazioni di panico in stile “venerdì da bollino nero” e così via. Allo stesso modo, in relazione alle lotte su SDA, i latrati del senatore Esposito avevano ulteriormente dimostrato il nervo scoperto delle istituzioni sul tema del lavoro.

Il 27 Ottobre può essere un’altra giornata importante in questo senso, dove all’astensione dai luoghi di produzione si aggiungeranno anche diversi momenti di piazza, che testimonieranno la volontà di estendere ad altri temi, inscindibili dalla dimensione puramente lavorativa, la giornata di lotta.

Milano, Bologna, Prato, Roma e Napoli saranno sedi tra la mattina e il pomeriggio di cinque cortei che porteranno in piazza i lavoratori e le lavoratrici del paese in sciopero, insieme ai tanti solidali provenienti dall’ampio mondo del conflitto sociale metropolitano.

 

Qui l’elenco degli appuntamenti per partecipare allo sciopero:

Milano – h 9.30 piazza Medaglie d’oro

Bologna – h 15 piazza Verdi per raggiungere piazza di porta Ravegnana (Due Torri) dove alle 15.30 partirà il corteo

Prato (Firenze) – h 10.30 Stazione Centrale FS

Roma – h 10.30 piazza della Repubblica

Napoli – h 9.00 piazza Garibaldi

27 ottobre 1969 la polizia uccide Cesare Pardini

pardini

Ottobre 1969 a Pisa è un mese di violenza fascista e risposta antifascista.

Per il pomeriggio del 27 viene indetta una manifestazione da parte dei sindacati e dei partiti della sinistra istituzionale per dare un risposta alle aggressioni fasciste dei giorni precedenti.

Il corteo, che aveva visto sfilare per le vie cittadine più di 10’000 persone, si conclude con un comizio finale, con l’intervento del sindaco socialista Fausta Cecchini.

Diverse centinaia di manifestanti però si allontanano dalla piazza del comizio e decidono di dirigersi nuovamente verso la sede dell’Msi. I manifestanti cercano di forzare il blocco della polizia, che blocca le vie limitrofe.
Le cariche sono molto violente, i feriti saranno poi parecchie decine. I poliziotti sparano decine di lacrimogeni.

Cesare Pardini, studente di Legge di 22 anni, viene colpito a morte in pieno petto da un candelotto, sul lungodarno Gambacorta, vicino alla spalletta dell’Arno. Stava osservando la scena con un amico.
La Questura dichiara subito che Pardini è morto d’infarto, le cariche della polizia non c’entrano nulla. Pochi giorni dopo l’autopsia stabilirà ufficialmente che la morte è avvenuta per “trauma toracico sopravvenuto dopo violento colpo subito all’altezza della regione cardiaca”.

I giornali dei giorni successivi sosterranno la tesi dell’infarto e si lanceranno contro i militanti di Potere Operaio, colpevoli di “aver fatto degenerare una civile manifestazione”. Sulla stessa lunghezza d’onda saranno anche i partiti della sinistra istituzionale che firmeranno un documento, proposto dallo stesso sindaco, che “ringrazia la cittadinanza per la grande e compatta manifestazione di ieri, condanna senza mezzi termini gli estremisti di Potere operaio, «che hanno strumentalizzato e distorto la manifestazione» ” (da “La Stampa” del giorno successivo).

A fine corteo la polizia farà 8 arresti, di questi tre sono operai, gli altri studenti.
Due giorni dopo, il 29 ottobre, più di 3000 persone parteciperanno ai funerali di Cesare Pardini.

(da InfoAut)

Storie di frontiera: quotidianità a Ventimiglia

Viviamo in una società in cui vige la piena libertà di circolazione delle merci e dei capitali, ma non delle persone, dei migranti, ai quali invece rimane solo la violenza delle frontiere e della polizia.

In questo momento mi trovo aVentimiglia, città di confine. Confine che separa, allontana e blocca tutti i ragazzi che sperano un giorno di arrivare dall’altra parte, in Francia.

Questa frontiera è per molti di loro invalicabile. C’è chi prova a varcarla attraverso sentieri di montagna e c’è chi spera di raggiungere la Francia provando a viaggiare in treno, tentando di fare ciò che italiani e francesi fanno senza avvedersene tutti i giorni.
Nella stazione dopo Ventimiglia, precisamente quella di Mentone Garavan, ad attendere gli shebab(ragazzi, in arabo) c’è però la polizia francese, la gendarmerie. Un poliziotto sale in testa ed uno in coda alla carrozza, controllano che non ci sianoneri nascosti sotto i sedili o nei bagni, e quando ne trovano uno, chiedono i documenti. Coloro che non li hanno sono costretti a scendere, indipendentemente che siano donne oadolescenti; sono costretti a ritornare a Ventimiglia anche a piedi, in violazione delle norme del diritto internazionale a tutela dei minori.

Le persone, così obbligate a ritornare in territorio italiano, si accampano sotto il cavalcavia che collega l’Italia alla Francia, lungo il greto del fiume Roja. Sono circa cinquecento i ragazzi, la maggior parte dei quali sudanesi, in età compresa tra i 12 e i 30 anni.
Le condizioni igienico-sanitarie sono drammatiche; mancano i bagni e i ragazzi sono costretti a lavarsi nel fiume. Molti di loro bevono quest’acqua, rischiando di compromettere la propria salute: a fine luglio infatti, contemporaneamente ad un intervento fatto passare come un’azione di pulizia della zona (effettuata con ruspe e sotto il controllo delle forze dell’ordine) due rubinetti di fortuna, unica fonte per approvvigionarsi, sono stati chiusi.

Sono evidenti le intenzioni del sindaco del PD di Ventimiglia di evitare la formazione di campi informali, che disturbino il decoro cittadino. La volontà della Giunta comunale è quella di spingere i ragazzi all’interno del campo gestito dalla Croce rossa, situato nell’estrema periferia di Ventimiglia, vicino alla tangenziale, lontano dagli sguardi dei turisti e dei cittadini.
Inoltre, da inizio agosto, la prefettura ha deciso di chiudere la chiesa delle Gianchette, da sempre punto di riferimento per minori e famiglie lì ospitate, ora trasferiti all’interno del Campo Roja (gestito dalla Croce Rossa Italiana), del tutto privo di spazi protetti per minori e ragazze, che vivono in promiscuità con adulti ed esposti ad abusi e sfruttamento. La maggior parte dei ragazzi non ha intenzione di entrare in questo campo, piuttosto preferisce rimanere sotto il cavalcavia; per potervi accedere è necessario rilasciare ancora una volta le proprie generalità e le impronte digitali. Questo significa che i migranti, qualsiasi cosa decidano di fare, devono forzatamente essere identificati.

Il campo è completamente militarizzato e circondato dalla polizia, che presiede la zona ventiquattr’ore su ventiquattro. I migranti, all’interno di esso, vengono privati della propria libertà di autodeterminarsi e di auto-gestirsi.

Come quasi tutti i campi governativi, queste strutture spersonalizzano gli individui: essi non solo non gestiscono la propria vita all’interno di questi spazi, ma non possono nemmeno cucinare, devono sottostare a degli orari di entrata e di uscita e non gli viene proposta alcuna attività ricreativa. “There is no freedom in the camp.” mi spiega Mohamed, prima di riprovare per l’ennesima volta ad arrivare in Francia.

Quasi tutti i ragazzi che stazionano lungo il fiume vogliono lasciare l’Italia per raggiungere la Germania o la Gran Bretagna, e ricongiungersi con amici o familiari. Alcuni di loro hanno conseguito un titolo di studio nel loro paese d’origine, altri invece sperano di proseguire gli studi in Europa. Martin vorrebbe diventare un medico, Ali un agricoltore, Hussein un avvocato: ognuno persegue il proprio sogno nel cassetto nella speranza di poterlo realizzare.
Molti di loro però prima di giungere in Francia devono fare i conti con la frontiera, con la violenza poliziesca e con le deportazioni arbitrarie verso l’hotspot di Taranto. Quasi ogni giorno in stazione, in spiaggia o sotto il cavalcavia vengono compiuti rastrellamenti sulla base dei tratti somatici; le forze dell’ordine caricano i ragazzi sui pullman della Riviera Trasporti (RT), e scortati da una camionetta della polizia, si dirigono verso Taranto. Queste operazioni costano circa cinquemila euro allo Stato, che utilizza i trasferimenti coatti per alleggerire la pressione al confine. Oltre ad essere onerosi per le casse del governo, vengono effettuati senza alcuna procedura legale e sono inutili perché dopo solo quattro o cinque giorni i ragazzi tornano al punto di partenza, Ventimiglia. Le deportazioni avvengono circa tre volte a settimana (se non di più) e i rastrellamenti non vengono messi in pratica solo a Ventimiglia ma anche a Como e Milano, sebbene in misura minore.Come emerge da alcune testimonianze, ad essere trasferiti non sono solo gli irregolari, ma talvolta i richiedenti asilo, i titolari di un permesso di soggiorno e spesso anche dei minori, che sono soggetti vulnerabili.
I ragazzi vengono trattati come pacchi postali, pedine di un gioco deleterio, oggetti da scovare, prendere, caricare e deportare. C’è chi ha dovuto attraversare tutta l’Italia anche cinque, sei o sette volte. Gli shebab vengono sottoposti quotidianamente ad una vera e propria violenza psicologica: “mi mancava davvero poco e sarei arrivato dall’altra parte ma sono stato preso e, a pedate, fatto ritornare indietro”, “non siamo criminali, per quale motivo ci trattate in questo modo? ” mi ripete Wiz con gli occhi lucidi. Oltre a dargli tutta la mia solidarietà, non so come rispondere, mi sento così impotente e allo stesso tempo arrabbiata.

La violenza perpetrata dalle istituzioni ed il clima di ostilità nei confronti di queste persone è la normalità: “vai al tuo Paese”, “vai in Africa”, “torna nel Burundi, fuori dai coglioni” sono le parole con le quali un poliziotto si rivolge ad un ragazzo alla stazione di Ventimiglia.
Per non parlare poi della repressione attraverso fogli di via, minacce e identificazioni da parte della polizia nei confronti dei solidali e di chi cerca di opporsi a queste politiche ingiuste. Per il solo fatto di chiacchierare con i ragazzi sotto il cavalcavia o al parcheggio, dove in serata viene distribuita la cena, ripetutamente ci vengono chiesti i documenti.

L’indifferenza e il razzismo sono all’ordine del giorno: un vecchio insulta i ragazzi passandogli accanto in bici, un negozio espone delle calamite con l’immagine del duce in vetrina. La gendarmeria francese perpetua forme di violenza fisica attraverso le manganellate ed i gas lacrimogeni. La frontiera stessa di per sé è violenza e tutto questo avviene nel disinteresse e nell’indifferenza generale: mi sento di vivere in un’epoca in cui l’uomo non conta nulla: è un documento, un semplice pezzo di carta, a contare tutto.
Nonostante ciò, i tentativi di superare la frontiera avvengono giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. I ragazzi non si arrendono, non perdono la speranza. La strada in montagna è lunga e pericolosa, costituita da impervi e stretti sentieri, che gli shebabpercorrono di notte, rischiando di essere beccati dalla polizia o di inciampare e cadere nel “passo della morte”, un dirupo nel quale hanno perso la vita molti ragazzi. Fulminati o investiti, i ragazzi morti mentre cercavano di varcare il confine sono numerosi.

L’Europa democratica è artefice di questa violenza, continuamente perpetuata attraverso leggi ingiuste ed accordi con governi dittatoriali, che hanno il solo fine di bloccare giovani che si dirigono prima in Libia, poi in Europa.
Per questo, dopo aver vissuto quest’esperienza a Ventimiglia, credo che sia assolutamente necessario non solo creare corridoi umanitari per evitare ulteriori tragedie in mare, ma anche concedere permessi di soggiorno per la ricerca di un lavoro e rivedere gli accordi di Dublino, in modo che vi sia la libera circolazione delle persone e venga promossa un’inclusione sociale.

Eloisa Pantano

G8 Genova 2001: A Bolzaneto fu tortura, nuova condanna di Strasburgo

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Ancora una condanna della Corte europea dei diritti umani per le torture alla caserma Bolzaneto.

La mattanza di Bolzaneto nei giorni del G8 del 2001 fu tortura. Lo ha stabilito anche legalmente la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l’Italia. I giudici hanno riconosciuto a 48 ricorrenti – manifestanti italiani e non – il diritto a ricevere tra 10mila e 85mila euro a testa per danni morali. Per i giudici europei “le garanzie più elementari a Bolzaneto furono sospese: i membri della polizia presenti, gli agenti, e per estensione, la catena di comando, hanno contravvenuto al loro dovere deontologico primario di proteggere le persone sotto sorveglianza”, oltre al fatto che “nessuno ha passato un solo giorno in carcere per l’impossibilità di identificare gli agenti coinvolti, la mancanza di cooperazione della polizia con la magistratura e le lacune strutturali dell’ordine giuridico italiano”, non colmate dalla cosiddetta legge sulla tortura di ques’estate inapplicabile ai fatti di Bolzaneto”.

A Bolzaneto, come scrissero i giudici della Cassazione, “fu accantonato lo stato di diritto”: furono rinchiuse oltre 200 persone in tre giorni, le quali subirono violenze, sevizie e abusi fisici e psicologici.

«Un canovaccio di soprusi che ricorda quello dei lager nazisti, seppur l’intensità e la gravità non siano paragonabili», ricorda il procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati che condusse l’inchiesta sui fatti di Bolzaneto, insieme alla collega Patrizia Petruzziello. «Le lunghe attese in fila per fare qualsiasi cosa, gli insulti continui, il freddo, la privazione dell’acqua e del sonno non si discostano molto dai ricordi dei sopravvissuti ai campi di sterminio» ha detto Miniati. La sistematicità degli abusi oltre che la loro durata, inoltre, spiega l’entità dei risarcimenti previsti dai giudici di Strasburgo per i 59 ricorrenti, che sono quasi il doppio di quanto stabilito dalla stessa Corte che aveva condannato l’Italia per il pestaggio all’interno della scuola Diaz.  «A Bolzaneto i manifestanti rimasero a lungo – ha spiegato il pm – in media uno o due giorni e i trattamenti inumani e degradanti si sono ripetuti in maniera sistematica quasi ci fosse un protocollo, dalle frasi antisemite a quelle che inneggiavano a fascismo e nazismo, dal dover stare in piedi per ore in posizioni scomode agli insulti continui».

Lo scorso 22 giugno  2017 l’Italia era stata nuovamente condannata con una identica motivazione: le forze dell’ordine hanno torturato coloro che furono fermati e portati nella caserma e lo Stato italiano non li ha né protetti né gli ha garantito giustizia. Perché in Italia non esiste una legge sul reato di tortura che sanzioni con pene adeguate questa gravissima violazione, facendo cosi anche da deterrente.

La legge mancante è stata approvata il 5 luglio, ma sono in tanti a dubitare della sua reale efficacia in casi come quelli di Bolzaneto. Ad aprile invece l’Italia aveva patteggiato con sei vittime proprio davanti alla Cedu. Nella sentenza era previsto che fossero predisposti corsi di formazione specifici sul rispetto dei diritti umani per gli appartenenti alle forze dell’ordine. Con quell’accordo il governo affermava di aver “riconosciuto i casi di maltrattamenti simili a quelli subiti dagli interessati a Bolzaneto come anche l‘assenza di leggi adeguate. E si impegnava a adottare tutte le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani, compreso l’obbligo di condurre un’indagine efficace e l’esistenza di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura”.

La prima condanna per l’Italia era arrivata il 7 aprile 2015 sul blitz della polizia alla scuola Diaz la notte del 21 luglio 2001. Anche in questo caso i giudici europei stabilirono che quello che avvenne “deve essere qualificato come tortura”.

La Corte aveva dichiarato all’unanimità che è stato violato l’articolo 3 della Convenzione: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti“. Il ricorso era stato presentatoda Arnaldo Cestaro, 62enne all’epoca del pestaggio, militante vicentino di Rifondazione comunista che dalla Diaz uscì con fratture a braccia, gambe e costole che hanno richiesto numerosi interventi chirurgici negli anni successivi.

Il commento ai microfoni di Radio Onda d’Urto di Italo Di Sabato, dell’Osservatorio RepressioneAscolta o scarica.