La lobby dell’amianto

Immagine

Per anni hanno falsato le informazioni sulla pericolosità della fibra killer. La scoperta avviene solo oggi, a vent’anni dalla sua messa al bando. Le leggi arrivano, ma con dieci anni di ritardo. E manca ancora la mappatura del territorio 

Negli ultimi decenni l’informazione sulla pericolosità dell’amianto, da parte di alcuni enti scientifici e istituzionali, è stata falsata e influenzata dagli stessi produttori che utilizzavano la fibra killer. Era il settembre del 1987 quando in Italia fu costituito il Cedaf (Centro documentazione amianto e materiali fibrosi) per interessamento delle imprese del fibrocemento che facevano capo all’Aua (Associazione utilizzatori amianto) per rispondere ai punti dell’Aia (Associazione internazionale amianto). Una vera e propria lobby che ha rallentato considerevolmente la messa al bando definitiva dell’amianto nel 1992 e l’adozione di contromisure efficaci per proteggere i lavoratori del settore. L’Europa aveva chiesto agli Stati membri di adottare normative a tutela degli operai a stretto contatto con la fibra killer già nell’83, mentre le leggi sono arrivate quasi dieci anni dopo. E così la Corte di giustizia europea ha condannato il nostro Paese per non aver recepito la normativa entro i tempi fissati.
A raccontare questa connivenza singolare tra utilizzatori dell’amianto e alcuni esponenti della comunità scientifica, non sono i parenti delle vittime o le associazioni ambientaliste ma lo stesso coordinatore del comitato tecnico-scientifico del Cedaf, il professor Gaetano Cecchetti, incaricato qualche anno fa dagli avvocati della difesa del processo Fibronit, di redigere una relazione per spiegare le ragioni degli imputati accusati di disastro ed omicidio colposo. Il professor Cecchetti, forse troppo preso dal ruolo di consulente della difesa, nella sua relazione dichiara candidamente che il Cedaf è stato costituito a seguito della sesta riunione biennale dell’Aia a Montreal nel 1987. «L’Aia incoraggerà i propri membri a rafforzare i contatti con i sindacati ed i governi. La migliore soluzione – si legge nei punti 10 e 11 della deliberazione finale – appare la costituzione di un Comitato che comprenda gli scientifici, i consumatori, i sindacati, i governi e le industrie». Già, le industrie, ben rappresentate in Italia. Tra i membri del comitato promotore del Cedaf infatti, figuravano, insieme a sindacalisti, ambientalisti, membri dell’istituto superiore di Sanità, di Medicina del Lavoro, del ministero dell’Ambiente e del dicastero dell’Industria, un componente dell’Aia e il segretario dell’Aua (gli utilizzatori dell’amianto). Il comitato tecnico-scientifico del Cedaf, tra l’altro, aveva tra i suoi membri anche l’ingegnere Giuseppe Ripanucci, consulente tecnico accertamento rischi professionali Inail e Umberto Verdel, coordinatore generale dell’Inail. «Il meccanismo – spiega l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio nazionale amianto – è quello già illustrato nella sentenza del processo Eternit che fa pure un riferimento alla lobby dell’amianto. L’Aia dava delle linee di indirizzo alle rispettive associazioni nazionali, nel caso dell’Italia l’Aua, che a loro volta facevano pressioni sulle comunità scientifiche dei rispettivi paesi, influenzando quindi anche le azioni normative dei governi. A volte, le pressioni bypassavano tranquillamente i “luminari dell’amianto” per arrivare direttamente alla politica». Il presidente dell’ Ona parla con cognizione di causa: in un fascicolo conservato all’Archivio di Stato di Torino, sotto il nome di “La lobby dell’amianto”
ha trovato due allegati scritti a mano. «In uno di questi – dice Bonanni – nel corso di una riunione tenuta alla sede dell’Assocementi di Roma nel 1978, risulta, in sostanza, che i produttori di amianto avevano fatto pressioni al ministero della Salute, per ritardare l’entrata in vigore delle norme riguardanti i limiti di soglia sulla concentrazione di fibre di amianto negli ambienti di lavoro, contenute nella proposta di legge al tempo in discussione. Limiti di soglia che, entrati poi in vigore soltanto nel ’91, se introdotti precedentemente avrebbero diminuito l’esposizione e salvate molte vite umane». Già dai primi anni 70 era emerso con chiarezza che tutti i tipi di amianto erano cancerogeni per l’uomo e nel 1973 la Iarc – International agency for research on cancer – aveva stabilito tale dogma per la «sufficiente evidenza». E già nel 1971, in occasione della conferenza internazionale delle organizzazioni di informazione sull’amianto – Asbestos information committee – tenutasi a Londra, alla quale partecipavano anche i delegati dei maggiori gruppi industriali dell’amianto, il presidente dell’Aic, prevedendo che le critiche si sarebbero intensificate, invitava tutti i presenti alla diffusione di opuscoli tranquillizzanti e li sollecitava a partecipare, ove possibile, all’elaborazione delle normative da parte dei singoli governi. E l’Italia ha preso in parola queste ‘indicazioni’. L’Aua, che riuniva circa 25 aziende che lavoravano l’amianto, promuoveva, attraverso il Cedaf, il presunto uso sicuro della fibra killer. Le dichiarazioni rilasciate dal professor Cecchetti durante lo storico processo di Torino, lasciano più di qualche dubbio sulla reale imparzialità del comitato tecnico-scientifico del Cedaf, da lui coordinato prima della messa al bando dell’amianto in Italia. La lista dei 2.969 morti, concentrati in particolare a Casale Monferrato, secondo la versione di Cecchetti era da attribuirsi al cromo esavalente (cancerogeno) contenuto nelle polveri scaricate dai cementifici nell’area. «Casale Monferrato è conosciuta tradizionalmente come la città bianca a causa della polvere», ha dichiarato in aula. Aggiungendo: «Nell’area di Casale erano in attività in quegli anni 5 cementifici… la polvere bianca che inquinava il territorio di Casale non era dovuta all’attività produttiva dell’Eternit».
«Dichiarazioni smentite dal tribunale di Torino nella sentenza Eternit – spiega Bonanni – e, direi, anche dalla storia. Una cosa è certa, le lobby sono state efficaci perché la produzione e l’uso dell’amianto sono aumentati vertiginosamente negli anni 60 e 70, quando oramai era certo che il minerale causasse oltre all’asbestosi, già tabellata come malattia professionale con una legge del 1943, anche il tumore polmonare e il mesotelioma. E allora perché la produzione e l’utilizzo di amianto sono aumentati? Chi paga i costi non solo morali e sociali, ma anche sanitari per le prestazioni assistenziali dovute a questo uso indiscriminato dell’amianto?». I risultati della “grande lobby” purtroppo si toccano con mano nel nostro Paese, a partire dalla legge 257/92 che ha determinato la messa al bando dell’amianto non ponendo però nessun obbligo di bonifica degli edifici costruiti prima. E i ritardi accumulati determinano gravi conseguenze ancora oggi. Come nelle scuole, dove rimangono 2.400 edifici con presenza di amianto e vi sono circa 30mila studenti e insegnanti a rischio. A vent’anni dalla sua messa al bando, si continua a sottovalutare la pericolosità della fibra killer, tralasciando anche la mappatura del territorio, quantomeno per capire quanto amianto è ancora presente nelle case o negli uffici del nostro Paese. Forse anche perché la verità fa male. Nel Lazio, ad esempio, è stato mappato circa il 4 per cento del territorio e sono stati trovati ben 4mila edifici pubblici o aperti al pubblico con presenza di amianto: meglio chiudere gli occhi e la bocca e far finta di nulla

La lobby dell’amianto | Left.

1 thoughts on “La lobby dell’amianto

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.